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CAPITOLO VII.

Malombra.


Alle due pomeridiane il commendatore e Silla lavoravano in biblioteca. Preparavano lettere e telegrammi d’affari, liste di persone a cui mandare la partecipazione di morte. Il Vezza aveva una parlantina inesauribile. Seduto al tavolo del conte Cesare, di fronte a Silla, discorrendo, scrivendo, buttando da parte una carta, pigliandone un’altra, non taceva che per guardare la punta della penna, per rileggere con un tal brontolìo inarticolato quello che aveva scritto o per spremersi con la sinistra dalle gote e dal mento qualche frase che non gli veniva pronta come le altre. Ogni tanto, discorrendo, dava un’occhiata a Silla e un tocco discretissimo nell’argomento della misteriosa comunicazione avuta da Marina. Ma quegli rispondeva a monosillabi o non rispondeva affatto. Pensava al colloquio avuto lì col povero conte nell’agosto precedente, la sera dopo il suo arrivo al Palazzo. Gli pareva udire ancora il vocione solenne e quel furibondo pugno sul tavolo. Adesso il sole fendeva obliquo la sala dalle finestre verso il lago, la empiva d’un chiaror verde dorato; e l’uomo giaceva in una camera vicina, senza vita. Quale mutamento! Scriveva, scriveva, buttando egli pure una carta per pigliarne un’altra, non rileggendo mai, trasalendo a ogni tratto nell’accorgersi di una parola omessa o sbagliata. Richiamava i pensieri a raccolta e tosto gli sfuggivano daccapo.

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