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— Crusnelli!

— Malombra!

Si riscaldavano, gridavan tutti insieme.

— Andiamo via — disse Silla.

Si alzarono e ridiscesero verso casa.

Quando giunsero in fondo al seno del Palazzo, dove faceva tanto buio che Steinegge si pentì di non aver preso seco la lanterna, saltò su nel silenzio il suono chiaro e dolce d’un piano. Rischiarò la notte. Non si vedeva nulla ma si sentivano le pareti del monte intorno alle note limpide, si sentiva, sotto, l’acqua sonora. In quel deserto l’effetto dello strumento era inesprimibile, pieno di mistero e di immaginazioni mondane. Era forse un vecchio strumento stanco, e in città, di giorno, si sarebbe disprezzata la sua voce un poco fessa e lamentevole; pure quanto pensiero esprimeva lì nella solitudine buia! Pareva una voce affaticata, assottigliata dell’anima troppo ardente. La melodia, tutta slanci e languori appassionati, era portata da un accompagnamento leggero, carezzevole, con una punta di scherzo.

— Donna Marina — disse Steinegge.

— Ah — sussurrò Silla — che musica è?

— Ma! — rispose Steinegge — pare Don Giovanni.

Voi sapete: Vieni alla finestra. Suona quasi sempre a quest’ora.

In biblioteca non c’era lume.

— Il signor conte arrabbia adesso — disse Steinegge.

— Perchè?

— Perchè non ama la musica e quella lo fa apposta.

Silla zittì con le labbra.

— Come suona! — diss’egli.

— Suona come un maligno diavolo che abbia il vino affettuoso — pronunciò Steinegge. — Vi consiglio di non credere alla sua musica, signor.



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