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atto secondo 153

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Regolo. (come sopra) Parla Licinio! Assai, tacendo,

meglio si difendea: pareva almeno
pentimento il silenzio. Eterni dèi!
una figlia!... un roman!
Attilia.   Perché son figlia...
Licinio. Perché roman son io, credei che oppormi
al tuo fato inumano...
Regolo.   Taci: non è romano (a Licinio)
     chi una viltá consiglia.
     Taci: non è mia figlia (ad Attilia)
     chi piú virtú non ha.
          Or sí de’ lacci il peso
     per vostra colpa io sento,
     or sí la mia rammento
     perduta libertá. (parte)

SCENA V

Attilia e Licinio.

Attilia. Ma di’: credi, o Licinio,

che mai di me nascesse
piú sfortunata donna? Amare un padre,
affannarsi a suo pro, mostrar per lui
di tenera pietade il cor trafitto
saría merito ad altri: è a me delitto.
Licinio. No, consolati, Attilia, e non pentirti
dell’opera pietosa. Altro richiede
il dover nostro, ed altro
di Regolo il dover. Se gloria è a lui
della vita il disprezzo, a noi sarebbe
empietá non salvarlo. Alfin vedrai
che grato ei ci sará. Non ti spaventi
lo sdegno suo. Spesso l’infermo accusa
di crudel, d’inumana
quella medica man che lo risana.

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