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atto secondo 43

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Serse.   Il viver tuo mi devi.

Temistocle. Non l’onor mio.
Serse.   T’odia la Grecia.
Temistocle.   Io l’amo.
Serse. (Che insulto, oh dèi!) Questa mercede ottiene
dunque Serse da te?
Temistocle.   Nacqui in Atene.
Serse. (Piú frenarmi non posso.) Ah! quell’ingrato
toglietemi d’innanzi:
serbatelo al castigo. E pur vedremo
forse tremar questo coraggio invitto.
Temistocle. Non è timor dove non è delitto.
          Serberò fra’ ceppi ancora
     questa fronte ognor serena:
     è la colpa, e non la pena,
     che può farmi impallidir.
          Reo son io: convien ch’io mora,
     se la fede error s’appella;
     ma per colpa cosí bella
     son superbo di morir.
  (parte, seguito da alcune guardie)

SCENA IX

Serse, Sebaste, Rossane e poi Aspasia.

Rossane. Serse, io lo credo appena...

Serse.   Ah! principessa,
chi crederlo potea? Nella mia reggia,
a tutto il mondo in faccia,
Temistocle m’insulta. Atene adora,
se ne vanta, e per lei
l’amor mio vilipende e i doni miei.
Rossane. (Torno a sperar.) Chi sa? Potrá la figlia
svolgerlo forse.

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