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Il villano che conduceva la carrozza, preoccupato della sua tuba colla coccarda, poco pratico delle redini e fiducioso, pare, nel buon senso delle due bestie si lasciava andare alle dolcezze di un sonnellino all’aperto e stava a cassetto con tanta grazia quanta ne può avere un sacco di cenci sul carro del lavandaio.

Il paesaggio invitava alla calma.

La monotonia degli alberi allineati, i prati verdi fuggenti sotto un cielo grigio, uniforme, la lunga via sempre piana che l’orizzonte tagliava con una linea di pallida porpora — meschino tramonto di un sole freddoloso — i campi disabitati, le rare case, i pochi viandanti, tutto era silenzioso e tranquillo.

Nell’interno della carrozza un uomo ed una fanciulla discorrevano famigliarmente, ridendo, occupandosi poco della strada che conoscevano a perfezione.

Erano fratelli e si volevano un gran bene. Daniele, di molto maggiore, teneva a Clelia le veci di padre.

Non aveva preso moglie per dedicarsi tutto alla piccina. Appariva un omaccione robusto, alla buona, poco complimentoso e meno elegante; ridanciano, tutto cuore; forte e tenero, capace di atterrare

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