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Quei suoni erano dolci, come preghiera mormorata sotto le vôlte di una chiesa, nella penombra dei vetri istoriati; ma erano anche teneri e ardenti come baci lungamente attesi, come baci d’amore scoccati da labbro a labbro. Erano note vellutate, larghe, limpide, tratte dai tasti con mano vigorosa, eppure soave, che faceva pensare a una passione repressa.

Lydia si sollevò a mezzo sulla poltrona magneticamente attratta verso quei suoni, collo spirito eccitato dalle recenti fantasticherie e con una disposizione alla mestizia simile a quella che si prova dopo una ubriacatura.

Chiamò: Thèa! Mosse alcuni passi, brancicando; il divano era vuoto.

Da una porticina in fondo che metteva all’altro salotto, un filo di luce rompeva le tenebre. Guardando quel lievissimo spiraglio Lydia comprese che anche la musica veniva di là,

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