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220 | confessioni |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Negri - Le solitarie,1917.djvu{{padleft:226|3|0]] io venni al mondo (forse mia madre, ma nulla poteva per me) pensò mai che io avessi un’anima. Si vive soli, abbandonati, così, in famiglia, a contatto degli altri, delle creature del proprio sangue. E della famiglia, e anche dei figli, si finisce coll’aver la nausea, una nausea mortale. Non è mostruoso, questo?... Non è peggiore d’un delitto?...
— Sì. Ma continuate, povera anima.
— Forse è colpa mia, è colpa mia. Ma che potevo fare?... Dunque.... dunque ascolti. Io avevo perduto il sonno. L’ultima notte, udii mio marito rientrar dalla camera della serva. La faccenda durava da tempo, io lo sapevo; ma m’ero messa il suggello sulla bocca. Che schifo!... Solo, quell’ultima notte, a pena strisciato nel letto, egli ebbe un brivido, un gemito soffocato, un rantolo. Erano le tre. Girai la chiavetta della luce elettrica. Si era portato le mani alla gola e restava lì, con gli occhi fuor dell’orbita, strangolato dall’asfissia, irriconoscibile. Mi vedeva, mi guardava, lui. Attendeva soccorso da me. Io non mi mossi: china su di lui, immobile, di pietra, spiai fino alle sei del mattino, su quel viso, su quel corpo, la maledizione del male subitaneo che