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Storia di una taciturna | 221 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Negri - Le solitarie,1917.djvu{{padleft:227|3|0]] lo inchiodava nell’impotenza della carne vile. Rantolava e non lo aiutavo, folle di rancore e di perversità, come se io stessa l’avessi colpito a morte. Non so qual forza mi tenesse. Quando chiamai, stava per spirare. Soccorso, salvato a tempo, avrebbe forse potuto sopravvivere, guarire. Sono un’assassina.
Ansava. Vi fu un silenzio rotto solo da quell’ansimo. Viva, in ascolto, una stella, nel quadrato di cielo color d’ametista intagliato nel vano della finestra aperta, diceva: So, so. — Diceva quel che il prete non poteva dire.
— Vedete bene — proseguì la vedova, più con la bocca che con la voce. — Espio come posso. Ma è così dolce curare i malati, assistere i moribondi, insegnare ai bambini!... Troppo dolce. Troppo mi piace. Ero forse nata per essere infermiera, o suora di carità. Nutrirsi dell’altrui dolore, per confortarlo, è gioia, è felicità. Debbo scontare, io. Ordinatemi una disciplina più aspra, una penitenza più dura. Sono pronta. So che ho commesso un delitto.
Attese, a capo basso. Il vecchio prete, raccolto in sè, meditava e pregava. Non era stupito. Troppe cose tremende egli aveva udite