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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Novelle lombarde.djvu{{padleft:324|3|0]]punta de’ piedi per raggiungere colle sue le labbra dell’amato. Ma egli, intorponendo la mano fra il suo volto e la bocca della donzella, si svelse da quegli amplessi, e respingendola da sè, cacciossi in camera impetuosamente, e vi si rinserrò.

Ributtata a quel modo, la povera Felicia, tutta confusa, nè comprendendone la ragione, scoppiò in un dirotto pianto, appoggiandosi alla parete, e rimanendovi a lungo, costernata o come tolta di sè. La riscosse una voce, un remore: pian piano accostossi, e all’usco dell’amato stette in ascolto: intese un gemito, un urlo, ma fioco, lontano, come d’alcuno che avesse il capo sepolto sotto lo stramazzo. Impaurita e raccomandando al cielo sè stessa e lui, tornossi alla sua cameretta, e avendo ogni pensiero in quel ch’era accaduto, per tutta notte non velò gli occhi.

Colla prima alba fu in piedi, fu nel corridojo, ma non osando entrar nella camera di Giulio, origliava alla serratura, nè udendo uno zitto, consolavasi pensando — Egli dorme». Voleva togliersi di là per badare alle casalinghe faccende, ma non le dava il cuore, e tornava a mettersi, in orecchi a quell’uscio: poi guardava nella finestra, tardandole che crescesse il giorno, e così venisse l’ora di riveder quello, in cui solo viveva da tanto tempo, quello che vedeva coronare colla maggior felicità i sospiri di lei.

Intanto sorse anche il padre, chiese di Giulio, ma non s’era visto ancora. Il sole avanzavasi, nè Giulio compariva. In pensiero essi traggono alla camera di lui, chiamano e non hanno risposta: aprono, non c’è alcuno: ma il letto, ma i mobili in iscompiglio qua e là dispersi i vestimenti, le lenzuola sbranate.

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