< Pagina:Novelle lombarde.djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.

61

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Novelle lombarde.djvu{{padleft:65|3|0]]La notizia non tardò a spargersi pel Comune. Stava il sindaco scegliendo le più mature pannocchie di grano turco dal suo camperello, quando arriva uno tutto trafelato e — V’ho a dire una nuova che rimarrete.

— Che cosa? è nato forse il vitello?» domandò Isidoro.

Altro che! È morto il padrone, l’Orso.

— Che?» saltò su il sindaco, lasciando cascare gli spigoni, e spalancando gli occhi. «Morto il padrone? Oh voi mi canzonate. Se l’ho visto io sta mattina, sano come un pesce.

— Tant’è: l’hanno ammazzato», rispondeva l’atro; «e sono addietro che lo portano in su, morto stecchito».

Intanto sopraggiungevano altri a confermare la notizia; onde Isidoro; fatto tanto di cuore, pianta lì sacco e gonnella, ed — Animo, figliuoli: qui bisogna correre, se mai fosse bisogno di noi». E toltosi in spalla il forcone, s’avvia più che di passo giù verso il bosco, e dietro altri ed altri, di mano in mano che ne incontrava, col badile, con mazzapicchi, con vomeri, con quel che prima capitava sotto le mani. Ma non andarono troppo, che il sindaco fermossi in sui due piedi, ed — Alto là, ragazzi. Don Alfonso non ha figliuoli, eh?

— Sicuro di no», risposero ad una voce.

— Dunque (replicò egli), noi ricuperiamo la libertà.

— La libertà? — La libertà?» ripeteano i villani, guardando un in viso dell’altro, come chi ode una parola che non intende: e si stringevano intorno ad Isidoro.

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.