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[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Novelle lombarde.djvu{{padleft:70|3|0]]Approfittò dunque della smania di don Alessandro per conchiudere una specie di capitolazione. — Ella vede come due e due quattro che con questi uomini io posso tenere il castello per un mese: e intanto quell’altra se non è crepata, creperà. Pure, se tanto le preme d’entrare, io lascerò venire vossignoria co’ suoi uomini nel cortile: quando sarà dentro, tratteremo più preciso; ma prima, sulla fede sua mi prometta di lasciare andare me ed i miei camerata con tutto quello che avremo indosso, senza molestarci».
Per quanto al signore paresse degradarsi scendendo a condizioni con siffatta genìa, pure, struggendosi di venirne a capo, non esitò a rispondere: — Si, sì: prometto in faccia a Dio e a tutta questa brava gente».
Allora fu abbassato il pente. I quattro bravi di don Alessandro precedettero: egli e la sposa, che mai non se gli partì dal fianco, tennero dietro a cavallo: ma fu impossibile impedire che alcuni dei galuppi più arditi, sguisciando fra le gambe dei cavalli, non entrassero nel cortile e dietro a loro tutto il popolo. I bravi, tolti in mezzo, per quanto urtassero e minacciassero, poco profittavano tra la folla e agevolmente avrebbero potuto restare uccisi. Ma il sindaco, al quale troppo sarebbe dispiaciuto il non potere in tutte le forme pigliar possesso del castello a nome del Comune, e che si ricordava in che modo taluno de’ suoi predecessori si fosse comportato in caso di sollevazione, andava gridando: — In nome della legge, all’ordine. Se sarà da ammazzare, aspettate che vi sia comandato». Il vicario, che, tanto contro sua natura, trovavasi