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novella lxxx. | 165 |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Novellette e racconti.djvu{{padleft:175|3|0]]la gammurra della Geva, e si pose disperata a sedere sopra una sedia zoppa impagliata. Taddeo non volea che la stesse in ozio: ella tornava a borbottare. Egli le presenta la conocchia; ella la gitta in terra: Taddeo ripicchia, dicendo: Che credi tu? che le predizioni di uno strologo ti abbiano fatta diventare reina, di una trista femminetta che tu eri jersera e che tu se’ stata in vita tua, nata per istentare finchè sei viva? Fila tosto, o io ti farò vedere chi tu sei, e qual reame sia il tuo, reina di cenci, ch’io non so a che mi tenga che non ti dia oggimai tante busse, che tu vegga una volta che si ha ad ubbidire a chi porta i calzoni. Fila, che maledetta sia tu, e non mi far perdere la pazienza. Queste ultime parole furono dette da Taddeo con due occhiacci così stralunati e con tale vociaccia, che la nuova Geva, tremando a verga a verga tra per la paura di fuori e per la stizza di dentro, si diede a filare come sapea, perchè il mestiere era per lei disusato, o forse non l’avea mai tocco in sua vita.
Mentre che queste cose nella casa di Taddeo si facevano, la Geva dall’altro lato nel palagio di Giovanni si destò anch’ella, e cominciò a borbottare fra’ denti: Oh che bello e dolce sogno ho io fatto stanotte! Egli mi parea che fossi traportata fuori di questo mondo, e posta in un letto di rose e di viole col più bel marito a lato che fosse veduto mai (nota, per onestà dell’istoria, che Giovanni, sdegnato la sera per li mali portamenti della moglie, era andato a dormire in un’altra stanza). Ma dove son io, proseseguiva la Geva? Non vi ha giardino di primavera che uguagli lo spettacolo ch’io veggo. Sono io in un letto? Al certo queste lenzuola sono di raso. Non vi ha tela di lino così morbida. Io sogno; non vorrei più destarmi. Sta a vedere ch’io son morta, e sono in un altro mondo. Così dicendo dunque la Geva, senza punto sapere che si facesse, pose la mano al cordone della campanella, e per caso tirò; onde una cameriera, temendo, secondo la usanza, di avere un gran rabbuffo dalla maladetta padrona, entrò sulle