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172 | novella lxxxii. |
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LXXXII.
La Speranza.
Meglio è fringuello in man, che in frasca tordo.
Io non so che diavol tentatore sia la speranza. Entra costei nel corpo quasi ad ogni uomo. Non ci è chi non si lusinghi di avere un dì qualche cosa più di quello che possiede. Quanto egli ha in mano di buono e di certo, non lo stima punto; sempra gli par più bello e migliore quello che gli stimola e punge il cervello. Oh! gli è pure più grosso quel boccone ch’io veggo colà, di questo che porto in bocca, dicea quel cane che passava il ponte, e vedea specchiato nell’acqua un pezzo di carne che avea fra’ denti. Gli è pur meglio ch’io lasci questo, prenda quello, e mi tuffi. Così fa, e rimane a denti asciutti. Io credo che il meglio sarebbe misurare quanto l’uomo ha, e prendere consiglio piuttosto da’ giorni dell’anno, che dalle sue voglie, le quali nascono l’una dall’altra, e non nascono come gli uomini, che dal grande n’esce uno piccolino; anzi ne avviene il contrario, che da una vogliuzza ne sbuca una maggiore, e da questa un’altra più grande; sicchè io non so come le abbiano fatto il ventre, chè la più picciola è gravida della maggiore, e non rifiniscono mai di partorire: nè ci è coniglio, nè colomba, nè porcellino d’India che sia tanto fecondo, perchè le son gravide sempre, partoriscono ogni dì, e non so di che ingrossino. Vuole la buona ventura che le sieno come quelle vescichette che fanno i fanciulli nella saponata, sicchè la prima scoppia presto e da luogo alla seconda; che se le fossero tutte durabili, in poco tempo ogni uomo parrebbe idropico, e avrebbe il corpo rigonfiato e tirato come un tamburo. Sia come si vuole, noi dunque siamo sempre travagliati da questa maledetta semenza che germoglia continuamente, e chi vuole una cosa, chi un’altra