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novella lxxxvi. 193

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LXXXVI.

Storia vera.


Racconterò di uno il quale poco mancò che non si stimasse morto, quantunque fosse sano e gagliardo quanto potea essere; ma perchè egli avea in cuore di essere ammalato, stava sempre in orecchi, quasi le campane suonassero il suo passaggio da questa all’altra vita; e tutti quelli che vedea, gli parea che fossero medici i quali gli dessero la finale sentenza. Sa ognuno che, quando è qualche influenza di malattia in un paese, ci sogliono essere di quelli a’ quali pare che il tirare il fiato, l’aprire gli occhi, e fare ogni altro più semplice atto, la tiri loro nelle vene; e di tempo in tempo sotto il mantello si mettono la mano al polso per sentire se batte più spesso, o si provano se respirano liberamente, e guardansi le ugne se imbiancano, allividiscono, o per ogni menomo calore o freddo delle carni arguiscono di essere agonizzanti, e cominciano a parlare con una vocina che indica la fine di loro vita. Di questi tali fu uno ne’ passati dì, il quale venuto da una terra non molto lontana in Venezia per godersi il carnovale, e andando perciò qua e colà mascherato, si abbattè a questi tempi in cui l’influenza de’ reumi, in molti corpi incrudelendo, lungamente gli tiene infermi e talora anche toglie loro la vita. Per la qual cosa incominciando grandemente a dubitare del fatto suo, e parendogli ad ogni poco che la gocciola del reuma gli stillasse dal capo al petto e lo facesse affogare, si diede con grandissimo studio a custodirsi, esaminando attentamente il sole e l’aria; e secondo le ore del giorno accrescendo e minorando i vestiti, anzi tenendo quasi la bilancia in mano per pesare la notte le coltrici del letto e le berrette che si metteva in capo; delle quali ne avea parecchie sul capezzale, per iscambiarle secondo che l’ammoniva la fantasia che gli abbisognasse. In così fatta guisa

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