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novella vi. 11

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VI.

Furberia di tre fanciulli che si fingevano pitocchi.


Chi parlasse co’ poveri e con gli accattapane che stanno limosinando per le vie e sui ponti della città, udirebbe che fanno molte querele intorno alla durezza del cuore di chi passa. La vera miseria merita compassione ad ogni uomo: essi però hanno le loro arti per commovere a pietà, e sono antichissime. S. Giangrisostomo in una omelia ne fa una lista; e io ne lessi anche assai in una commedia spagnuola, in cui si trovano le adunanze che fanno, i loro statuti particolari, e gli ordini a’ quali ubbidiscono. Non so se debba incolpare la loro malizia, o dire, come appunto S. Giangrisostomo, che gli orecchi sordi degli uomini gl’inducono alla necessità di tali finzioni. Poche sere fa, passando un ponte, vi trovai tre fanciulli mezzo ignudi che battevano i denti, e facevano un piangere così doloroso e lamenti tali che fendevano il cuore. Feci quanto potei in loro pro; e passato oltre un poco, non so perchè, mi arresto: era bujo; cessa il pianto e si cambia fra loro in un quieto ragionamento. Dice uno: Che ti pare? fo io bene la parte mia? Risponde l’altro: Passabilmente; ma la voce vuol essere più stridente. Dice il terzo: È vero, accordiamoci bene: e fanno come gli strumenti. Quando parea loro che i tuoni andassero bene, diceano: Oh così, così; e rideano. Intanto passa uno, e il coro alza le voci. Io stetti mezz’ora nascosto ad udire quella musica; poi ripassai, ed essi intuonano: Voi non fate bene, diss’io; e cominciai a far loro il maestro con gli stessi insegnamenti che avea uditi. Mi ascoltarono prima attoniti, e appresso tutti ad un tratto sparirono.

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