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252 | novella xiii. |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Novellette e racconti.djvu{{padleft:262|3|0]]discende, che non penserete mai di cacciare dal trono Maadì, nè di formare partito veruno contro di lui.
Il povero Meemet, chiamandosi fra sè fortunato di scapolarla a tal prezzo, promise ogni cosa. Andate, gli disse il suo liberatore: e di più questa nuova legge v’impongo, che non vi lasciate mai più a Bagdad rivedere; ma sapendosi che vi abbisognerebbe di che vivere, il signor mio vi dà una somma di danaro: eccola a voi; e così dicendo, gli consegnò le ventimila dramme che avea da lui poco prima ricevute.
Questo fatto andò incontanente agli orecchi del Califfo; imperocchè la bella schiava, con tanta generosità stata donata a Jacub, non era stato altro che una spia dal sospettoso Maadì posta a’ fianchi di lui. Il Califfo, pieno di sdegno fece venire a sè Jacub, da lui creduto traditore e gli disse: Come hai tu eseguito quello che io ti comandai? Principe, gli rispose Jacub, con quella fede che dee fare un suddito, e con quella premura che dee avere un zelante servidore. Sciagurato, ripigliò il Califfo, tu hai lasciata fuggire la mia vittima. È vero, e così era il debito mio, per risparmiare a voi una colpa, della quale era vostra intenzione ch’io fossi complice, e fu meglio che andare a seconda della vostra inquietudine e crudeltà. Voi siete il sovrano per proteggere i deboli, e la vita di un uomo non tanto è vostra, quanto di tutto il restante de’ vostri sudditi. Tocca a voi gastigare i rei, non far morire gl’innocenti. Percosso il Califfo da questa verità di nuovo ricevette nella sua grazia l’uomo giusto, e disse: Io avea solo questo concetto di te, che tu fossi un amabile uomo di corte; ma ora riconosco che sei un vero e cordiale amico.