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— Paolo, di primo nome. Di cognome Martini, ma non rammento più esattamente come fosse scritto. Dunque: andai a casa di lui, per vedere il suo pianoforte che era un vecchio Erard sonoro come un organo. Egli mi guardava in estasi e soffriva perchè non gli permettevo da principio di chiamarmi Ellyn tout court.

— Come parlavate?

— In inglese. Egli sapeva un po’ di inglese, senza acca, e ne imparava rapidamente ogni giorno, ogni giorno di più. Voi italiani siete come i russi per le lingue.

— Non fate complimenti e non vi distraete. Pensate a Paolo.

Ella diceva Paulo, costringendo il dittongo in una sola vocale ambigua e brevissima.

— Povero Paolo! È tanto tempo! Dunque un bel giorno a casa sua, mi disse, così, all’improvviso: – Io voglio sposarvi. – Io scoppiai in una risata. Ve lo potete immaginare! Già egli non aveva un soldo e anche di lezioni poche e, da quando conosceva me, per andare a passeggio, ne faceva anche meno. E poi l’io voglio sposarvi era addirittura allegro, per me, con quell’io che escludeva ogni consenso mio a priori, e quel voglio così italianamente dispotico. E poi ancora, appena

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