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il venerdì. Allora sedeva in un angolo del salottino della maestr’Armeni, fissava una corona d’alloro a bacche di porporina appesa in cornice sopra il divano giallo con una scritta «Gli italiani di Alessandria d’Egitto riconoscenti», e respirava col ritmo con cui respirava sua moglie, cioè male. Alle note lunghe, restava con la bocca aperta congestionato e riprendeva fiato solo quando Giacinta aveva filato tutta la nota.
— Che forza! Io ci morivo, – osservava alla fine alla maestra, ansando. Anzi in principio diceva «io crepavo», ma l’arte lo raffinò. Era giovane, sposo da un anno, malleabile ancóra. Il Bello non poteva lasciarlo insensibile. Comprò ogni domenica la Farfalla romana, ritagliò ogni mattina le appendici del Messaggero, e una volta si appostò anche presso l’obelisco di Montecitorio per vedere uscire dal parlamento il poeta onorevole Cottafavi. A primavera cominciò a leggere il Quo vadis? quando dopo soli sette mesi sua moglie fu dalla maestra promossa all’opera e precisamente alla Traviata, egli s’imparò a mente tutto il libretto. A casa, dopo cena, «si davano la replica». Giacinta cominciava la parte di Violetta: — Fra le tazze è più viva la festa, – e Sabatino facendo da Flora rimbeccava: —