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Era un foglietto di carta rosea volgare, sul quale con un piccolo caratterino verde era scritta tutta la denuncia dei miei supposti amori con Giannino Santariva.

Tutto: dal primo incontro fortuito sul ponte alla Carraja, dalla sua prima visita fino a un altro incontro in Piazza della Signoria e alle altre due brevi visite sue; e su quelle tre o quattro realtà era costruito con precisione geometrica un edificio di calunnie abilissimamente: il primo incontro era stato preparato per andare insieme al giardino Boboli, la prima visita per scambiarci sotto gli occhi di mia suocera una lettera con un appuntamento, e così via, con l’indirizzo esatto di Giannino e la descrizione della sua casa e delle sue orgie e della loro durata. E infine, sette od otto aggettivi derisorii per mia suocera che non si accorgeva di nulla, degna madre di tanto figlio.

Egli, dunque intimandomi di partire il giorno dopo per Aquila, ci aveva creduto, e più — invece di venir direttamente ad accusare ed insultare me — era andato da sua madre, le aveva chiesto consiglio, forse l’aveva rimproverata per la sua poca sorveglianza, le aveva chi sa come parlato di me, di me che ero la sposa sua onestissima, santissima, fortissima. Nulla, nulla aveva giovato, Teresa

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