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osava più guardare in faccia sua moglie; e non le parlava se non era interrogato, e anche rispondendole intercalava ogni parola con quell’untuoso «Lauretta mia» monotono come l’ora pro nobis delle litanie. Lauretta a certi momenti era tentata di prenderlo per un braccio, di scuoterlo, di elettrizzarlo, di gridargli: – Oh, insomma, vatti a far benedire, tu e il tuo peccato!

Sopratutto, davanti agli altri e specialmente davanti al cugino, quella prosternazione del marito le sferzava i nervi. E il cugino pian piano rassicuratosi qualche volta canzonava Gigi furbamente, e a pranzo gli susurrava all’improvviso: — Bada; tua moglie ti guarda! – così da fargli cader di mano la forchetta; e quando parlava, lo interrompeva: — Ma, prima di parlare, hai domandato il permesso a Lauretta? Un giorno, finalmente, stando solo con Lauretta nella stanza da lavoro (era arrivato il maggio e dalle finestre aperte veniva con l’aria tepida una sonnolenza dolce dolce), egli tornò alle antiche audacie e baciò la cugina sopra i capelli neri, odorosi come le piume dei passeri che cantavano sopra una grande magnolia del cortile vicino. Pronto, dopo il bacio, si ritrasse impaurito, aspettando

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