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Gli animi si rassicuravano. Dieci carabinieri erano partiti in autocarro per Fiori perchè ormai tutto v’era tornato tranquillo. Anche si diffuse la voce che il sottoprefetto era andato a fare la siesta. A immaginarsi l’autorità in una dolce penombra, supina sul letto, in maniche di camicia, cullata dal ritmo del proprio russare, la piccola città tornò a guardare con fede al domani.

Verso le cinque infatti, quando riuscii a vedere i miei malati, trovai riaperti anche i caffè. Mi rammento che proprio in quel pomeriggio mi capitò di visitare per l’ennesima volta un povero tisico che viveva con una sorella maggiore in un quarto piano su via della Maestà, di fianco al duomo. Quella sorella non aveva menato una vita da santa in gioventù; nè giuro che fosse anche allora un modello di castità, con quelle sopracciglia nere folte folte, i capelli lucidi come unti, le narici aperte come due froge, due sbaffi di nerofumo sotto gli occhi, e un repugnante profumo di pacciuli che è il profumo dei poveri e che, da quando studente entravo in sala d’anatomia, m’è sempre sembrato un odore di carni in decomposizione. Pure ad assistere quel gemente scheletro di suo fratello era così attenta, delicata, devota che pareva aver raccolto lì, d’istinto, la sua maternità mancata. E poichè io non la vedevo che in funzione d’infermiera, non sapevo che parlarle con rispetto e quasi con umiltà, tanto mi riconoscevo impotente a soccorrerla nell’

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