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Nella chiesa non c’era nemmeno un chierico. Al momento dell’invasione, il curato, il cappellano, il sacrestano s’erano rifugiati in sacrestia, vi s’erano barricati spingendo contro la porta l’armadio; e adesso s’udivano solo dei sospiri su dalla grata d’un coretto in fondo alla navata, sopra il cornicione.

Intanto cominciava ad accorrere gente; e quelli col bracciale rosso erano pochi per parare alle mani tese verso tutta quella, come si suol dire, grazia di Dio. Più che salvare la merce, a loro premeva che dilagasse lo scandalo, con tanto di scarpe per prova. E in breve fu una ressa confusa, a spintoni, a grida, a risate. Mi trovai accanto Teta la mia cuoca, che si stringeva al petto due scarpette di coppale fiammanti, con un alto fiocco da Re Sole. — Anche tu? — Ho sentito dalla cucina tutto questo baccano e sono scesa a vedere che cos’era. — Ma questo è prendere, non è vedere. — Signor padrone, se non le prendevo io, le prendeva un’altra. — Hai scelta la tua misura, almeno? – le chiesi indulgente, che sommando ipoteticamente la capacità delle due scarpette si sarebbe sì e no trovato spazio per una sola delle piote della mia vecchia Teta. — A occhio, credo che mi vadano, – e rideva. Tutti erano giulivi, e le facce sudate di quelli che sgusciavano via con la preda, e le voci di quelli giù nelle tombe. Lavoravano al lume dei ceri sfilati dai candelieri degli altari. Una sartina

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