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le novene e le processioni cogli occhi semichiusi e con una tanto puntuale assiduità e, quando è inginocchiata sul suo banco, è tanto contrita e graziosa e abbandonata che, a mettermi tra lei e il signor Iddio, io che non ho a mia disposizione l’assoluzione del confessore perchè non mi confesso, temerei di commettere un peccato d’orgoglio. Sarebbe ella in chiesa un così amabile esempio d’umiltà e di compunzione, se non peccasse tanto? E vederla assolta e rosea e felice allontanarsi dal confessionale coi piccoli passi silenziosi d’una gattina che sguscia via dalla credenza, e poi avvicinarsi senza titubare alla sacra mensa per riscuotere quel tanto di perdono come un suo indiscutibile avere, e, alla fine della messa, uscire dalla tepida penombra della chiesa sulla gradinata in pieno sole, bell’e nuova e ricomposta, immemore di tutto quel che le è capitato jeri e l’altro jeri, battendo gli occhi alla luce come se si svegliasse da un sogno: questo spettacolo non deve dare, alle altre donne che peccano più o meno di lei, una prova tangibile e seducente della religione cattolica, dell’umanità dei suoi riti, della potenza del suo perdono? Bisogna rispettare il peccato se si vuole onorare la virtù: almeno i peccati che come quelli della signora Cencina non fanno male a nessuno.

Certo se il commendator Pópoli suo marito conoscesse le vicende della vita di sua moglie come deve conoscerle il confessore di lei, non sarei tanto indulgente. La pena o la tolleranza del marito turberebbero ugualmente la mia coscienza

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