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Lo vidi, gli feci raccontare quella sua avventura miracolosa. Era una delizia udirlo parlare breve, chiaro, pacato come se l’avventura fosse stata d’un altro o, meglio, gli fosse indifferente, perchè, parlando d’un altro, almeno l’avrebbe lodato, da buon commilitone. Giovanni era di quelli uomini sani e imperturbabili ai quali sembra che morti, nascite, sconfitte, disastri, vittorie sieno tanti omaggi e doni personali della natura o della provvidenza per farli più felici. Non sto a dire le feste, gl’inni, le lagrime, gli entusiasmi: ed erano davvero, caro Giovanni, feste meritate. Il fidanzamento come nei drammi a lieto fine fu solenne quanto un matrimonio. Medico curante, fui presente all’incontro suo con Elena. Dopo un gran bacio, Giovanni le disse tranquillo tenendole una mano sulla testa: – Hai fatto due belle sciocchezze, prima a pensare sul serio che fossi morto io, poi a pensare sul serio di voler morire tu. Che cosa? Il telegramma? Come? Dopo tre anni di guerra una persona sensata crede ancora ai telegrammi che vengono dal fronte? – E le si sedette accanto, e ci guardò con l’aria di chiederci che cosa stavamo a far lì. Pareva beato, se m’è lecito scrivere una frase che può sembrare sconveniente, di trovarsi la sua innamorata così a letto per lui. Ma lo scrivo perchè sono sicuro che quella diceria contro Elena era una calunnia.

In tutte le feste e banchetti e ricevimenti di quei giorni la signora Cencina non comparve mai. Il sindaco Pópoli si presentò sempre solo. Le donne, come certi filosofi, tendono a generalizzare:

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