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Aveva insomma rese meccaniche tutte le sue difese contro il prossimo suo: cifre, statistiche, sonerie d’allarme. E dentro queste trincee viveva sicuro. Mi dava l’idea di quegli scienziati che passano la vita a schedare tutto quello che leggono e pensano e, sicuri d’aver chiuso l’universo in quella cassaforte delle loro schede, non lo vedono più; nè s’avvedono di non vederlo. Così la signora Cencina poteva tranquillamente e continuamente tradir suo marito; ed egli essere felice.

Io, invece, da quando avevo saputo, avrei voluto che nessun altro sapesse, anche per la mia delicata posizione verso il capo dell’amministrazione comunale dalla quale, come medico condotto, dipendevo. Dopo l’armistizio avevo chiesto, secondo il mio diritto, d’andare in pensione. Con un pretesto o con un altro mi si pregava ancóra d’aspettare; e per lo più erano ragioni che soddisfacevano il mio amor proprio o si rivolgevano alla mia responsabilità professionale: massima, quella dei rischi mortali che adesso si corrono ad affidare la salute del pubblico ai laureati di guerra ai quali non è stato nemmeno insegnato l’elementare pudore di non ordinare niente ai malati o di ordinare solo quelle innocue medicine le quali ajutano, se non il malato, la speranza (remedia ut aliquid fiat videatar, come dicono con buon senso i vecchi trattati). Ora tenere proprio la moglie del sindaco incatenata così alla mia famiglia, mi ripugnava. Non ne avevo colpa io, è vero; nè d’altra parte potevo ritirare la mia domanda

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