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in tre stanze. Io ero entrato, un pacco per braccio, nella seconda, senza far rumore che ero in pantofole, quando mi parve d’udire un sospiro nella terza stanza la quale comunica, come ho detto nel capitolo precedente, con le soffitte di Rosina la sarta. Pensai a un gatto e deposi tranquillo i miei due pacchi. Ma i sospiri si ripetevano e io corsi alla porta. Era chiusa, ma con uno di quei saliscendi nei quali si suol ficcare una zeppa quando si vuole che non s’alzino e la porta non s’apra. Con una spallata la aprii. In piedi presso la finestrella spalancata sul cielo, Nestore e Cencina mi guardavano, incerti, ma non mostravano nessuna intenzione di volersi gittare disperati da quell’altezza. Poichè non sapevo niente dell’arrivo di Nestore, scelsi questo tema più innocuo per rompere il silenzio:

— E tu quando sei venuto? — Un’ora fa. È il mio turno di riposo. Cencina si sforzava di sorridere e, alzando le braccia nude, di ricomporsi le chiome. Le prime parole che riuscì a pronunciare appena le si calmò il respiro, furono: — Mi sono levata il cappello, – ma non continuò la lista di quel che s’era tolto di dosso. Anche Nestore s’affannava a ravviarsi i capelli che portava lunghi sull’alto, secondo la moda. Se li ravviava con le due mani cercando di ficcare le ciocche più lunghe sotto le altre e non ci riusciva. Cencina lo guardò, e rise. C’era tanto affetto in quel lungo sguardo che pian piano le si spense il riso. Parve che cogli occhi ella volesse proteggerlo e confortarlo in quell’

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