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L’idea di scrivere il racconto delle mie vicende domestiche in questi due o tre anni di terremoto che gli storici chiameranno pace, m’è venuta l’anno scorso, d’estate, a tavola. Per la prima volta dopo trent’anni di matrimonio mi ritrovavo solo nella mia vecchia sala da pranzo davanti al gran ritratto di Vittorio Emanuele secondo, in litografia, comprato da mio padre il 15 novembre 1860 che fu il giorno del plebiscito dell’Umbria e anche il giorno, se non sbaglio il conto, in cui ebbi l’onore d’essere concepito. Per trent’anni mia moglie Giacinta, seduta di fronte a me, m’aveva nascosto la meta del ritratto, così che quella sera esso mi sembrava più grande e più caro con quei fieri occhi che non riescono ad essere burberi, e quel petto quadrato sul quale l’Italia innamorata s’era gittata con romantici giuramenti di fede eterna.

Mia moglie era partita la mattina con mio figlio Nestore per Roma, dove Nestore era andato ad assumere il posto di organizzatore nel “Sinda-

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