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fragore d’uno scoppio lontano: cupo e secco, senza echi. Scesi in istrada e, dietro gli altri, presi la via del Corso.
— Una bomba alla prefettura! Una gran folla s’accalcava sotto il palazzo del sottoprefetto. Mi fecero largo, entrai nell’androne. La bombetta era esplosa nel cortile che è largo ed erboso e da un lato dà sul giardino e sull’orto. Poichè il portiere e le due guardie che vigilano tutto il giorno l’ingresso, continuavano a giurare che da più d’un’ora nessuno era entrato nel palazzo, supponemmo che la bomba potesse essere stata lanciata dal giardino. Difatti, salvo due vetri rotti, al terreno, e quattro sassi del selciato sconnessi e anneriti dallo scoppio, la bomba non aveva fatto danni. Lo stesso sottoprefetto s’affannava a spiegarlo a tutti, con una voce che via via si faceva più ferma ascoltando sè stessa. Egli s’interrompeva solo per raccomandare ai carabinieri che sgombravano il cortile, l’androne e qualche metro di piazza là davanti, d’essere gentili, molto gentili col pubblico. Quando si rimase là dentro in pochi, rivestiti di pubbliche cariche, ci si mise coi cerini a cercare i frantumi dell’ordigno. Il commissario di pubblica sicurezza sosteneva che era stata una bomba a orologeria collocata lì molte ore prima; il capitano dei carabinieri, che si trattava d’un innocente petardo; il sottoprefetto, ormai rinfrancatosi, sceglieva, come era dovere del diretto rappresentante del Governo, un’opinione intermedia, e dichiarava che era stata una bomba a mano, e a sostegno della sua tesi citava fieramente la sua esperienza