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del teatro corse a chiamarmi perchè la prima donna partoriva. Aveva resistito fino all’ultimo atto della Maria Stuarda, puntualmente, e, mentre la trasportavano a casa in carrozza, m’avevano mandato a cercare. Il custode mi menò in una stanzuccia di via San Pietro, nuda, sotto il tetto. E sul letto trovai la partoriente che urlava e springava, i capelli disfatti, la bocca torta, gli occhi bianchi. Ma era ancóra truccata e vestita da regina, la faccia tutta gesso, rossetto e nerofumo, l’abito di raso nero a sbuffi gialli con una gran coda che pendeva sullo scendiletto. E il povero marito era ancóra vestito da boja, tutto di rosso fuoco, con una barbaccia gialla e quadrata che gli si sollevava a fiocchi. Due candele. E dai vetri sconnessi della finestra, il vento faceva ballare le fiammelle e le ombre. Quei due poveri cani non avevano fatto in tempo a spogliarsi, e lei si sgravò così vestita da regina, assistita da suo marito in lagrime, vestito da boja. Quando vedo i gesti da tiranni di questa gente che da un anno o due ci annuncia tutti i giorni la nascita dal loro grembo della società nuova, dell’ordine nuovo, della felicità nuova, penso sempre a quei due, truccati a quel modo. Ma quelli soffrivano sul serio. E del resto la regina Maria Stuarda abortì, e il suo povero boja riaccompagnandomi sulle scale e finendo di staccarsi quel che gli restava di barba mi confidò in un ultimo sospiro: – Meglio così, dottore, meglio così, perchè non avremmo saputo che dar da mangiare a quella creatura, se non moriva.

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