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anni, e non speravo più di vederla accolta quando un bel giorno fui chiamato a S.... dov’è la sede del Compartimento ferroviario, e dopo mezz’ora d’anticamera accanto a un usciere che leggeva l’Avanti! e sputava in terra come se le piastrelle bianche e nere del pavimento fossero ognuna una lapide sul cadavere d’un borghese, fui ammesso alla presenza di non so più che capufficio. Era un grassottello sui cinquanta, calvo, con poche setole di barbetta castagna ficcate sulla punta della bazza, e in bocca un bocchino di ciliegio grosso come un mortaio da trincea, con dentro una cicca di toscano spenta: più due occhietti da civetta, gialli, furbi e scanzonati, tra le palpebre spelate.

— Il dottor Maestri? Bravo, bravo. Legga qui, – e mi porse un mezzo foglio, di carta protocollo, ma non l’avevo ancóra preso che quello continuava: – Bravo, bravo. Dunque anche lei è dei nostri, – e con quelli occhietti rideva così che non sapevo se volesse con quel “nostri” annunciarmi una condanna o una fortuna. Si trattava della mia nomina a medico delle ferrovie. Lo guardai senza parlare perchè stavo parlando a me stesso e mi chiedevo, un’altra volta, se dovevo sì o no accettare. — Capisco. Lei già lo sapeva; ma era mio dovere disturbarla per dirglielo. S’accomodi. Io preferisco stare in piedi. Sto sempre in piedi. Sono stato seduto venti anni per arrivare a questo posto. Niente di speciale, anzi incomodissimo. Ma almeno adesso posso stare in piedi. Firmo anche in piedi. Bravo, bravo. Io conosco

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