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cappello sulle scartoffie della scrivania con l’impeto con cui Brenno gittò la spada nella bilancia sul piatto che sapete. Il capufficio dette un balzo. Ma prima di porre le mani su quel cappello riuscì a frenarsi di botto, così che da giallo che era diventò in una fiammata tutto rosso. Poi con due dita, scusandosi e riscusandosi, sollevò la tesa del cappello, ricuperò la cicca con lo spillo, corse a deporla nel cassetto più alto dell’archivio, e tornò davanti ai suoi interlocutori. Saltellava come se il pavimento fosse arroventato:
— Loro possono lasciarmi la dichiarazione dei due medici? — Dobbiamo ancóra farne fare una copia da mandare a Roma ai nostri deputati. — Deputati, deputati.... Che c’entrano i deputati? Vediamo d’accomodarci qui. Non ci siamo sempre accomodati? – e si grattava la calvizie e poi si guardava le unghie; – Ha proprio bisogno d’un mese questo bravo Mingozzo? Sieno buoni. Quindici giorni basteranno. — Un mese, dice il certificato medico. — Ma l’altro certificato, quello legale, dice che è guarito. — Bugie di vigliacchi. — Di vigliacchi! – ripetè il coro dei quattro, due un’ottava sopra, e due un’ottava sotto. — Facciamo venti giorni. — Cavaliere, lei lo sa se le vogliamo bene. Facciamo venticinque. — Ma a me occorre un certificato legale che dica venticinque. — Mingozzo