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è giù sulla porta.

Il capufficio sobbalzò: s’era dimenticato di me e all’improvviso io gli rappresentavo la salvezza: — Dottore, vada giù lei. Lei ormai è regolarmente nominato. Vada giù, visiti il Mingozzo. Faccia lei. Veda se può dargli questi venticinque giorni, – e voltandosi ai quattro: – Il dottore, qui, è il padre di Nestore Maestri, uno dei vostri. Ci avviammo. Restò indietro quello vestito di marrone, estrasse dalla tasca della giacca un pacchetto, lo porse al capufficio ridendo: — Trenta toscani le avevamo portato, uno per giorno. Adesso me ne dovrei riprendere cinque. L’altro era beato. Con la sinistra stringeva il pacco sul cuore, con la destra prima gli strinse la mano, poi accompagnandolo fino sul corridoio gli accarezzò affettuosamente le spalle. — Ancóra un medico, – ringhiò Mingozzo appena gli fui presentato. Ma quelli gli spiegarono chi io mi fossi, e il nome di Nestore lo placò tanto che voleva portarmi a bere e darmi da fumare. Nicola Mingozzo s’era trovato quattro mesi prima sulla macchina d’un treno merci che tra Ancona e Sinigallia era stato di notte urtato da un treno diretto. L’urto l’aveva veramente ricevuto nella coda e Mingozzo che era sulla macchina non l’aveva sofferto che per contraccolpo e quasi per sentito dire. Ma l’effetto sui suoi nervi era stato, si vede, tanto grave che ormai

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