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Un tranvai ci passò vicino e Nestore abituato a scendere e a salire dai treni in movimento vi saltò su con tanta abilità che non ebbi il tempo di chiedergli come il suo amico si chiamasse. Egli potè gridarmi soltanto: – Alle otto verrò a prendervi tutti e due per andare a pranzo.

Saranno state le sei. Il russo parlava italiano e m’ascoltava con benevolenza dall’alto della sua statura, mentre a piedi ci avviavamo verso l’albergo Centrale. La verità è che le domande più necessarie non mi parve decente fargliele súbito. E la più necessaria riguardava la sua igiene personale. Solo se egli fosse salito in treno a Mosca o a Pietrogrado e fosse arrivato difilato a Roma attraverso a un migliajo di gallerie senza aver mai trovato una goccia d’acqua, la sua sporcizia poteva sembrare giustificata. Mani, faccia, collo, capelli, e il bavero del suo pastrano e la tesa del suo cappello e gli orli delle sue maniche, tutto era lustro e così patinato dall’unto che pelle, pelo, stoffa, feltro sembravano aver mutato natura ed esser diventati avorio, bronzo, cuojo. E la seconda domanda era sul suo nome e la sua professione. Ma a chiedergli il nome mi sembrava d’atteggiarmi a poliziotto, considerato che un fatto era certo, dopo la sua stratificata sporchizia, la sua qualità cioè di rivoluzionario. E scelsi una domanda più generica: — Lei conosce Roma? — Oh sì, vi sono venuto in viaggio di nozze. Parlava adagio cantando e riposandosi sulle

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