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sedie di legno bianco duramente impagliate come quelle delle chiese: il quale aspetto, in tempo di pace, le ha assicurata una clientela d’inglesi e di tedeschi romantici in cerca di color locale e di carciofi alla giudia; e adesso, in tempo di rivoluzione, le ha data una clientela di sindaci rossi, di deputati rosei, di propagandisti scarlatti, d’organizzatori ponsò, di segretarii vermigli che arrivano anche in automobile, fragorosamente, con un codazzo di seguaci devoti.
Nestore ci fece sedere a una tavola che aveva già sei o sette clienti certo autorevoli perchè Nestore a due o tre di loro andò a parlare da dietro, sotto voce, appoggiandosi appena alla loro sedia, per informarli, capii, sull’essere mio e del russo. Ma i complimenti furono tutti pel russo che finalmente seppi chiamarsi Micáilof. Da uno all’altro il suo nome diventò presto Micaloffe. Egli ad ogni presentazione, correggeva tragico: – Micáilof, Luca Micáilof, – e alla fine, rassegnato, mi si sedette accanto. A Roma le mosche sono più feroci che da noi, nè onestamente se ne può accusare il Governo del Re. S’era ai primi di giugno e la sora Giuditta aveva già dovuto stendere un velo color di rosa sulle due grandi litografie che rappresentavano Lenin e Marx. A me quella visione di Lenin tutto zigomi, con la barbetta spelacchiata dal turbine della rivoluzione, nascosto pudicamente dietro il tulle color d’aurora come una vergine al suo primo ballo, confesso che piacque molto, come un simbolo della rivoluzione italiana di dopodomani. Ma Micáilof