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fu d’un’altra opinione, e appena la sala fu colma, andò sotto la sacra icone, salì risoluto sopra una sedia e strappò il velo. Dopo un attimo di stupore, scoppiò un uragano d’applausi. Tutti erano in piedi, col bicchiere in mano, e gridavano: – Viva Lenin! – e abbracciavano il russo che stringeva sempre nel pugno il roseo velo e tracannava sereno tutti i bicchieri che gli capitavano a portata di mano anche se gli venivano porti solo per toccare il suo. Ma nel pieno dell’entusiasmo entrò la signora Giuditta e andò in collera. Quel velo era nuovo, le era costato venti lire, trenta lire, quaranta lire, e dell’arredo del locale era padrona lei. Per calmarla glielo consegnarono, ma lei lo scosse, se lo distese sul petto potente, col gesto della Veronica, contandovi i buchi e gli strappi, e riprese a sbraitare. Due deputati al Parlamento dovettero calmarla promettendo che gliel’avrebbero pagato per nuovo. Allora si quietò e se ne andò.
Per qualche minuto la riunione diventò silenziosa. Uno borbottò: – Adesso quello è capace di scrivere in Russia che noi s’era velato il ritratto di Lenin. – Un altro chiese: – Non ce l’hanno le mosche a casa loro? – Un terzo arrivò imprudentemente fino a ricordare il gioco a Mosca cieca. Il russo s’era seduto accanto a me, sempre più accigliato e solenne. A quel “Mosca cieca”, chiese spiegazioni, in tono perentorio; e Nestore nuovamente fu incaricato di spiegargli che per noi questo è un gioco da bambini. Fu peggio. Per quanti bicchieri gli facessero ingojare, il sospetto d’essere preso in giro, lui