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con Mosca, Lenin, Troschi, Zinovieff e tutta la rivoluzione, gli restò in gola, di traverso. E i convitati sempre più preoccupati delle ripercussioni internazionali che a quel colpo potevano succedere, si consultavano a bassa voce. Micáiloff, con l’aria d’un carabiniere che prepara un processo verbale, chiedeva ai più vicini i nomi di questo e di quello. Finalmente, seduto sdegnosamente di tre quarti, l’avambraccio destro sulla tavola, tenendo sempre impugnato il suo bicchiere, si tacque. E la conversazione pur a bassa voce, ricominciò.

V’era un deputato, tondo taurino apoplettico, con la giacca e il panciotto sbottonati, il quale agitando le cinque salsicce della mano sul cranio calvo per scacciarne le mosche, si lagnava in bolognese d’un giudice istruttore, farâbott, imbrujon, sberr, gesuetta. Questo giudice, a udire il deputato, aveva interrogato, con altri compagni, anche lui in non so più che istruttoria, e con tutti aveva simulato d’essere, come si suol dire, un simpatizzante, stanco del regime corrotto e della burocrazia prepotente, amico del vero popolo, della vera libertà, della vera giustizia, dei veri stipendii che si dovrebbero finalmente dare ai magistrati, convinto fautore infine dell’organizzazione sindacale. Tutti gl’imputati, l’uno dopo l’altro, erano caduti nel tranello e s’erano abbandonati a confidenze che ora riunite e connesse apparivano confessioni. E l’onorevole, congestionato d’ira contro l’astuzia del giudice e la petulanza delle mosche, si lamentava che i suoi colleghi del gruppo parlamentare l’avessero

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