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L’abitudine, dopo colazione o dopo pranzo, di non prendere il caffè nella stessa trattoria dove s’è mangiato, ma d’andarlo a sorbire proprio al bar o al caffè, è un’abitudine, lo so, provinciale. E almeno a Roma avrei dovuto abbandonarla. Ma proprio lì, all’ombra della storia e dell’infallibilità, sentendomi rassegnato alla mia inguaribile piccolezza, anzi godendomela sicuro che all’universale religione e virtù il peccato di gola d’un atomo come me non poteva recare nessun danno ponderabile, insieme al caffè, dopo quella colazione, desiderai d’assaporare anche due paste. Con questa mira m’incamminai giù per Borgo Nuovo, pure voltandomi di tanto in tanto a gittare un’ultima occhiata a San Pietro, rapida come un’istantanea da sviluppare poi a casa, di notte, con la memoria: la piazza nel sole e il porticato nell’ombra e lo scialo delle due fontane e gli statuoni lassù che continuavano a fare verso il paradiso gesti incomprensibili per me peccatore di provincia. E quando fui giunto a piazza Scossacavalli, entrai da un pasticcere e mi sedetti a un tavolino di freschissimo

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