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convento, e il convento ha una chiesina. Sin da prima della guerra, con l’accordo di tutti i partiti, s’era pensato di trasformarla in una sala per le malattie contagiose: e nessuno s’immaginava di vedere in questa trasformazione un epigramma contro la nostra religione. Ma con la guerra quella chiesina se la prese l’autorità militare e la ridusse a suo magazzino, di tutto, scarpe, brande, sacchi, cenci, anche medicinali. La guerra da due anni è finita. Ogni due mesi il Comando di Divisione assicura per lettera che la sgombrerà nei due mesi successivi; ma la chiesa è sempre colma e sbarrata. E il sindaco voleva prima delle elezioni riaverla e cominciare i lavori, pubblico documento delle cure che la sua amministrazione ha per la salute di tutti ma specialmente, s’intende, dei poveri.

— Se l’avessi saputo due ore fa, lo dicevo all’onorevole Misilmeri, comunista. L’ho accompagnato a vedere San Pietro. — Prendiamo il tranvai e andiamo a cercarlo. Promisi al sindaco che o quello o un altro, purchè fosse rosso, proprio rosso, tutto falce e martello, glie lo avrei pescato nel pomeriggio, per quanto torbido fosse il maremagno di Roma. Il tranvai lo prendemmo lo stesso. Egli andava a ritrovare sua moglie, a ora fissa, presso un parrucchiere di via Condotti, e dovetti accompagnarlo. La signora s’era fatta, diceva, ondulare i capelli; e si sa quanto facilmente le onde cambino di colore. Quando giungemmo, stava discutendo col parrucchiere davanti ad alcune fiale e bottiglie lucenti, ciascuna con un

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