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che gli avevo assestato quando avevo evocato in quella penombra il fantasma del suo padrone romano. Anche io già ne provavo un leggero rimorso. Era meglio che ci separassimo. Guardai l’orologio, protestai una visita urgente ad un agonizzante, ed uscii.
La mattina dopo, spicciate le visite, me ne andai addirittura a Poreta. Lassù non si parlava di elezioni, o almeno nessuno me ne parlava. Margherita teneva con sè per coltivare il mio poderuccio, un figlio e un fratello: il figlio Achille, sui sedici anni, sempliciotto e rubicondo; il fratello Matteo sui quaranta, smunto, sdentato e traffichino che non parlava mai, ma pensava sempre al miglior modo di far quattrini. In guerra, con la fortuna di non aver più che due o tre denti e con l’ingegno naturale, era riuscito a far di tutto, l’attendente, l’infermiere, il piantone, il cameriere, il magazziniere, l’usciere di tribunale, da Padova in qua, senza mai toccare un fucile. Dopo Caporetto aveva scoperto una professione anche più utile: quella del sensale di balie, che dai nostri monti partono, credo, da secoli balie per tutta l’Italia centrale, da Bologna a Roma. La prima l’aveva trovata per la moglie d’un giovane generale dell’Intendenza, che s’era sgravata a Bologna. Era stato il principio della fortuna di Matteo. Con l’arricchirsi dei contadini le balie si sono fatte rare, e le poche che si trovano costano più d’un ministro. Magari anzi restassero come i ministri attaccate al loro posto. Matteo aveva risolto il problema così: un terzo della