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era arrivato anche Nestore e se n’era andato con Matteo verso l’oliveto del sindaco. L’oliveto Pópoli si stende in declivio cinquecento metri più su dei miei campi. Dalle nostre parti gli ulivi non vegetano bene che in collina; e i più ricchi poderi della piana hanno ciascuno un oliveto o due sulle coste dei monti. Questo dei Pópoli era bellissimo e vasto, di cupa foglia, ogni tronco potato e scavato e lustrato, pareva, da un ebanista, ogni pianta sostenuta da un suo murello come in un vaso; infine, tutto solatìo come un giardino. Ma Nestore, cittadino, socialista e ferroviere che lassù a Poreta non era venuto, credo, da prima della guerra, che andava a cercare tra gli ulivi? E che aveva da chiedere a Matteo? Balie anche lui? Lo vidi tornar giù per lo stradello dell’orto insieme a lui, ragionando fitto, anzi scrivendo, a un certo punto, qualcosa sopra un foglietto e poi rileggendo lo scritto a Matteo. Quando entrò nella mia stanza, era felice e padrone di sè e del mondo, come quando l’avevo a Roma trovato nella soffice sede del suo Sindacato. E le prime parole che mi disse, furono queste:
— Quanto può valere, secondo te, l’oliveto del sindaco? — L’oliveto? — Già, l’oliveto. Il sindaco vuol vendere l’oliveto, vuole vendere i suoi casali, vuole vendere tutto, a fuoco e fiamme. Ha paura. È stato a Roma per questo; ma a Roma nessuno compra e tutti gli hanno consigliato di vendere sul posto, a lotti, se proprio vuol vendere. —