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cavaliere, sissignore, cavaliere della corona d’Italia. Senta, dottore. Da quando quest’uomo s’è messo a fare il capopopolo, io volevo venire da lei, volevo essere visitata da lei, volevo da lei una risposta franca, una sentenza definitiva. Posso aver figli io? Ho trentasei anni, sono donna, sono donna ancóra. Se lei m’assicura che io posso essere madre, io un figlio l’avrò, un figlio lo voglio avere. Non da lui, sa, ma da un galantuomo qualunque. E voglio dargli il mio nome, soltanto il mio nome: Torricelli, Torricelli, i conti Torricelli di Sinigaglia. Quando posso venire da lei? Se vuole, vengo súbito, stanotte. Lo lascio lì solo a fare i discorsi davanti allo specchio. Ma io un figlio, un figlio mio lo voglio, per poterglielo piantar sul muso. Ah sì, tu sei Pascone? Ma questo è Torricelli, vigliacco! Vengo domattina. Posso venire domattina?

Aveva lasciato il candeliere sopra una sedia, lì in fondo alla scala. E quando con quella voce calda e soffocata ruggiva: – Io un figlio l’avrò, un figlio lo voglio avere, – alzava orgogliosa la testa e quel pennacchio di capelli e si batteva con le spatole delle mani sul ventre come suonasse un tamburo. Io per calmarla cercavo di deviare il discorso: — Ma stamattina la pelliccia, scusi, come gliel’hanno presa? — Semplicissimo. Lui era scomparso alle sei appena aveva saputo che il capitano Tocci rimurava la lapide. Se n’era andato non so dove, fuori di città, in campagna, in montagna, che anche in carcere sarebbe andato pur di sentirsi

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