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condotto Pascone alla finestra, e poi dei fischi, e ridendo lo raffigurava agli ascoltatori con un gran berretto da notte bianco e rotondo che invece erano le mie garze. All’improvviso giunse anche quella notizia: i comunisti avevano bastonato il loro sindaco perchè era scappato in campagna e non s’era lasciato per tutto il giorno vedere. – Dovrà dimettersi, dovrà dimettersi, – ma il commendator Pópoli, col sussiego del giudice che, letta la sentenza capitale, non s’occupa della bassa bisogna degli aguzzini e del boja, fingeva di non udire. Intorno a lui, però, l’orgoglio di non essere stati sopraffatti come a Bologna ma d’aver prevenuto il nemico e d’averlo battuto e scornato, dava baldanza anche ai più prudenti.

Insomma la notte era fonda e la città nel sonno, che vi saranno stati, sì e no, cento cittadini desti a quell’ora. Ma io sentivo che gli animi ormai s’erano voltati davvero e che il regno di Pascone e dei suoi era tramontato, perchè, se anche Pascone, con quel solo occhio che per quei giorni gli era rimasto, non avesse veduto la necessità di dimettersi, pure ad ogni suo arbitrio, anzi ad ogni sua parola si sarebbe ormai risposto con vigore. Ma di Pascone m’importava meno che di Nestore. Era colpa della notte la quale suole moltiplicare tutte le paure! Era la certezza anzi l’urgenza oramai del pericolo? Certo v’entrava anche un poco d’egoismo perchè il Tocci, il Pópoli, il colonnello m’avevano al Caffè salutato con una certa freddezza, ora che dei miei buoni offici d’intermediario

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