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poi un altro, e mi diceva: – Questo è per suo figlio, e anche questo, e anche questo. È socialista, ma sì, lo so. Non fa niente. Sarà contento lo stesso, vedrà. – E i ritratti di quella bella e cara signora, mentre egli li sfogliava e sorridendo me li passava, diventavano sempre più grandi, grandi come una cartella di rendita consolidata. Ed egli mi mostrava i tagliandi, di semestre in semestre. E s’avvicinava un generale alto alto, magro magro, serio serio, con un pajo di forbici lunghe lunghe appese per una catenella d’oro al suo cinturone di cuojo, e cominciava a tagliarne uno, due, tre. E io mi sbigottivo a vedere che il vento se li portava via, e per la reverenza, non osavo parlare, anzi non osavo nemmeno voltarmi a vedere dove andavano a posarsi. E quello, sotto ogni Italia, faceva con quei tagli come una scaletta. E il Re buono buono mi diceva: – Vede, cavaliere, l’Italia sta quassù e l’Italia sarei io. Su per questa scaletta s’arriva a me. È la scala che prendono tutti. Basta che mettano il piede sul primo gradino: non smettono più di salire. E io, e l’Italia, li aspettiamo tranquilli lassù. – Il generale tagliava tagliava. Io morivo dalla voglia di supplicarlo di smettere. E non riuscivo a schiudere le labbra, per la reverenza. Mi svegliai, e aprii la bocca.

Giacinta era tornata accanto a me; mi voltava le spalle, e placata dormiva. Saranno state le sei. Scesi dal letto in punta di piedi. E verso le sette, al solito, uscii.

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