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fosse dato di scegliere dove e come morire, io vorrei morire all’aperto davanti al gran respiro d’una veduta come quella della mia Poreta, godendomi l’illusione di perdermici. E vorrei che fosse di giorno, e non di notte. Perchè un conforto anche sarebbe in quella pianura e su quei colli poter riconoscere tutti i ciuffi neri dei boschi e le case chiare e le strade bianche e i prati verdi, uno a uno, tanto da salutarli, prima d’addormentarmi.
Sogni. E così sognando mi guardavo attorno, e a rivedere i pagliai e l’aja e la tettoja mi tornò alla memoria anche il sogno della notte, col Re che mi dava tutti quei ritrattini azzurri dell’Italia e sorrideva, a dir la verità, scanzonato. Dopo tutto, se Nestore nell’universale trambusto di questi anni s’era saputo raggranellare onestamente un suo gruzzoletto, il male non era tanto grande e irreparabile. E dovevo proprio io, nelle mie eterne contraddizioni tra ideale e reale, tra propositi e azione, io che m’ero tanto doluto di vederlo ferroviere e socialista tra il grasso fumo del carbone e della rettorica, io che avevo palpitato di gioja a udirlo desiderare il borghese possesso d’un oliveto, io che avevo palpitato di ansia a veder il mondo e la moda nelle ultime settimane voltarglisi contro; dovevo, dico, proprio io adesso sospettare di lui e respingerlo? Ma sì, aveva ragione il Re del mio sogno: su per la scaletta dei tagliandi di rendita s’arriva a volere il bene e la pace d’Italia, e non v’è strada più sicura, e Nestore prendendo quella strada non s’era sbagliato, e magari tutti, contadini