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E s’uscì col notajo; e bevemmo in tre alla salute di Pópoli, compreso Matteo che ad entrare in siffatta compagnia nel caffè del Corso, tra la folla reduce dalla processione, si levò d’istinto il cappello e poi se lo rificcò sulla nuca d’un colpo ricordandosi d’essere ancóra al potere per mandato di popolo. Dopo il vérmutte, Pópoli andò a salutare sua moglie che, seduta con altre signore a un tavolino del caffè, gli chiedeva cogli occhi se poi il fatale istromento era stato firmato. Da là mi chiamò:

— Anche mia moglie vuole congratularsi col compratore. La signora Cencina mi fece posto accanto a lei: — Ma, bravo dottore. Mio marito ci ha sofferto, sa. Ma io sono contenta: un’altra volta imparerà a non aver paura. Ormai tutti dovevano essere al corrente della grande novità. Chi mi fissava tanto per vedere com’era fatto un uomo che in una questione d’affari aveva messo Pópoli nel sacco; chi mi salutava facendomi l’occhietto; chi m’aspettava sull’uscio per chiedermi i particolari di quel colpo da maestro. E come la sera in cui avevo ricevuto la nomina a cavaliere, io già sentivo che mi sarebbe stato facilissimo abituarmi anche a quest’altro titolo, d’uomo furbo. La stessa Cencina quando non la guardavo, mi fissava curiosa come se mi vedesse per la prima volta, come se lassù nella mia soffitta non m’avesse veduto addirittura in maniche di camicia e in pantofole. Chi sa, in cuor suo riandava quella

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