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di bontà e d’economia. Nè all’industria di Nestore bastò quel poco raccolto. Un giorno la madre gli trovò in tasca venti lire, e gliele sequestrò. Tornò dopo qualche giorno a frugarlo: gliene trovò altre venti. Nestore si confessò senza fatica, anzi con orgoglio. La rocca sulla collina, dietro due o tre cortine di mura antiche e nuove, grige di pietra o bianche di calce, era allora un reclusorio. Con la sua davidica abilità di fromboliere Nestore riusciva, nascosto dietro certi spuntoni di roccia, a scagliare di là dalla seconda e terza muraglia del reclusorio, legate a un sasso, lettere e biglietti che erano destinate ai reclusi e che donne e uomini appostati lontano gli consegnavano con precise indicazioni del luogo e dell’ora più opportuna pel lancio. E si faceva pagare un buon tiro anche cinque lire: come chi dicesse oggi cinquanta. Gli spiegai severamente l’orrore morale di ajutare così ladri ed assassini. Nestore mi rispose che non li conosceva nemmeno di vista, e i biglietti che aveva lanciati, non li aveva mai letti. Era presente la madre, pronta, s’intende, appena aveva udito la mia voce salire alla spietata severità, a cercare un modo per salvare di Nestore almeno l’onore:

— Tu non capisci che Nestore l’ha fatto per buon cuore. Ha fatto male, ma per buon cuore. Le obiettai le quaranta lire e le alte tariffe da lui imposte. — Ma questi danari li ha presi perchè glieli hanno dati, per forza. Se non glieli davano, non li prendeva.

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