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di donne più abituate al romor mondano della mia onesta e modesta Giacinta.

S’aggiunga che Nestore non s’accontentava di parlarle di politica e di descriverle l’avvenire, riesciva sempre a trovare per sua madre regali utili e pratici: non si trattava più dei capperi della rocca, ma ora d’una pezza di buon panno da vestiti e di qualche chilo di sapone, ora di calze fini e di carta da lettere con le iniziali, ora di due o tre bottiglie di vino spumante. Viaggiando su e giù l’Italia com’egli doveva fare, le buone occasioni, anche in questi tempi buj, capitavano sempre a un giovane che avesse goduto, come Nestore godeva e gode, di molte e fidate conoscenze e avesse ormai, tra i compagni delle sue idee, séguito e autorità. Con me, l’ho detto, è andato sempre cauto, forse anche perchè mi sentiva irriducibile e dall’età quasi anchilosato nelle mie opinioni. E di questa sua delicatezza già cominciavo ad essergli grato, quando nel decembre del 1919 fui improvvisamente chiamato dal sottoprefetto. Il palazzo della nostra sottoprefettura mi piace. In questi sessant’anni di vita l’ho veduto mutare d’aspetto molte volte sebbene, dalle persiane della facciata verniciate di verde alla scrivania del sottoprefetto impiallacciata di palissandro, dal busto di Pio VI in gesso nella nicchia sul primo ripiano dello scalone fino alla pianta topografica del nostro circondario tesa tra due bastoni nel corridojo dove ci si siede incomodamente prima d’essere ammessi alla presenza

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