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dell’autorità, tutto mi sembri in esso tale e quale, immutato, da tempo immemorabile. Sono stato io a mutare. Vi sono andato con mio padre, quando avevo dodici o tredici anni, pei ricevimenti di capodanno e di carnevale, e non pensavo che alla tavolata di dolci e di bibite rosse verdi gialle e viola. Vi sono andato giovanotto innamorato col proposito di ballare tutta la notte e di stancare tutte le dame, e salendo le scale provavo, gradino per gradino, la ritmica agilità dei miei ginocchi come fanno i ginnasti prima di spiccare il salto. Vi sono andato promesso sposo con la mia fidanzata e col mio suocero futuro, per invitare alle nostre nozze il sottoprefetto d’allora, o almeno sua moglie, o almeno una delle sue figlie, perchè un riflesso dell’autorità statale desse un lustro storico a quell’avvenimento, per me, unico; e ahimè, ci vennero tutti e in un’ora mangiarono più di quel che alle loro feste io avessi mangiato in vent’anni. Ci sono andato come medico condotto, chiamato all’improvviso, sempre con la speranza d’aver da curare il sottoprefetto in persona, e sempre deluso, ora pel portiere, ora per la cuoca, ora pel cocchiere, triste conferma, dall’alto, della mia inguaribile mediocrità o timidezza; mai pagato, nemmeno con un grazie, perchè doveva bastarmi, secondo l’uso italiano, l’onore. Ci sono andato cogli altri del mio ordine o, come ora si dice, della mia classe a presentare i miei omaggi al Re quando venne qui per l’inaugurazione della statua a Vittorio Emanuele II, e poichè si parlava d’igiene, il Re mi chiese quanti

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