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Peggio, nelle ultime elezioni il partito popolare vi aveva avuto la maggioranza. Nestore, seduto in salotto con due suoi colleghi della Camera del Lavoro, ostentava una calma sovrana e parlava dello sciopero dei ferrovieri in Inghilterra computando sopra un foglio il ragguaglio tra i loro salarii in scellini e i salarii dei nostri ferrovieri in lire, senza colpa nostra, italiane. All’improvviso s’udì un gran rombo come se una macchina onnipotente si sforzasse a ingrandire d’un colpo la straduccia in salita e la meschina piazzetta che menano dal Corso a casa mia. Era l’automobile: l’automobile del Prefetto e della rivoluzione. L’automobile, più gli applausi.

— Tu aspéttalo qui in salotto, con la mamma, – mi suggerì Nestore con quella sottile conoscenza degli uomini che già v’ho vantata abbastanza. Vedevo tra le persiane socchiuse la folla che applaudiva e gridava, il tetto dell’automobile nera che la fendeva maestosa, il fotografo che gesticolava; eppure sentivo che qualcosa mancava alla festa. Che cosa? Che cosa? Nestore già mi presentava all’ospite insigne quando mi balenò la risposta al quesito assillante: mancava la marcia reale. Miserie della vecchiaja che non sa liberarsi dalle abitudini e dai ricordi dei tanti anni vissuti, e mescola ingenua il torbido passato al radioso avvenire. Ma era molto simpatico quell’onorevole uomo a cui Nestore per dovere di disciplina dava del tu. Posato, roseo e rotondo, cogli occhi chiari, i baffi brizzolati, e i capelli tagliati a spazzola,

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