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Nestore affermò, severo:

— Di queste faccende si parlerà alle dieci alla Camera del Lavoro. L’ospite assentì ma, perchè non restasse pur l’ombra del mio errore, mi osservò bonario: — Dica la verità. Più che i fatti di Castelpiano, a lei importa la possibilità d’uno sciopero di protesta. Ah, borghese, borghese, borghese, – e ridendo mi minacciava con la forchetta. — Si sa, i fatti ormai sono quello che sono.... — Lasci andare, dottore. Lo sciopero sarà quel che sarà. Lo sciopero è prima di tutto la pena che il tribunale proletario infligge alla società borghese; poi è un corso accelerato per insegnare al popolo come si fa la rivoluzione; infine uno sciopero è utile quando si chiude in modo da lasciare adito a un altro sciopero. Dunque bisogna che loro ci si abituino. È chiaro? — Per me, no. Ma è colpa mia, – e glielo dichiarai così modestamente che egli rise, e col bicchiere in mano, tra i sorrisi esperti di Nestore e degli altri compagni, gentilmente mi dette questa spiegazione: — La borghesia crede che tra uno sciopero e un altro non vi sia nesso e che, domandoli o sopportandoli l’uno dopo l’altro, pian piano essa riesca a stancare il proletariato o a vederlo placato nella soddisfazione per quel che ha ottenuto. Non è vero. Vigiliamo noi. Guardi quel ritratto che ella giustamente tiene in un posto d’onore: il ritratto di Vittorio Emanuele secondo. Io rispetto quei re, prima di tutto..» —

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